Giorno 14
Questo è il decimo anno che un gruppo di ricerca indipendente, legato alla Columbia University, a Oxford e ad altre università, pubblica il Word Happiness Report: un report basato su un’indagine statistica relativa alla felicità reale dei cittadini. I parametri indagati riguardano sì il PIL pro capite, ma anche la sicurezza, la salute, l’aspettativa di vita, il controllo della corruzione e della criminalità e la libertà personale e collettiva.
Bene, per il decimo anno consecutivo, la Danimarca sale sul podio. Dopo essere stata per diversi anni sullo scalino più alto, quest’anno è seconda in classifica, preceduta dalla Finlandia e seguita dall’Islanda.
Ecco che il nostro dodicesimo giorno di viaggio ci vede varcare la soglia della capitale della felicità. E noi lo sapevamo benissimo, perché nonostante avessimo pagato 33,29 euro semplicemente per attraversare un ponte, sentivamo un’euforia interna che non ci aveva pervaso finora.
Avrei già dovuto conoscere Copenhagen per via di quel folle Interrail che mi vide attraversare Amsterdam, Copenhagen, Berlino, Praga e Vienna, nel lontano 2007, insieme all’amica del cuore di quel periodo. Ma dei due giorni danesi ricordo molto poco: l’ostello in cui risiedevamo, l’attesa straziante di una telefonata che non è mai arrivata, un caffè Illy che faceva rabbrividire e che abbiamo deliberatamente deciso di non pagare scappando dal bar a gambe levate, un tipo conosciuto in ostello, di quelli che puoi dire solo “è proprio un bravo ragazzo” anche se hai vent’anni e non ottanta, che ci ha seguite un’intera giornata in giro per la città reggendoci i vestiti fuori dai camerini mentre ci provavamo qualsiasi capo di abbigliamento architettando piani per rubarlo data la piccolezza del nostro portafoglio e abbandonandoli seduta stante perché in fondo non eravamo in grado di fare queste cose – soprattutto quando incontravamo lo sguardo del bravo ragazzo; il fumo di Christiania e una scena da film: via principale di Christiania, quella dei pusher e dello smercio di hashish e marijuana – tavolini imbanditi di tocchi di fumo che non avevamo mai nemmeno immaginato – vietato fare le foto – compriamo da uno di quei banchetti qualche euro di hashish, una roba epica che si sgretolava senza bisogno di squagliarlo (io non ho mai fumato più di tanto in vita mia, direi quasi per niente, ad eccezione di quel viaggio che dopo la tappa ad Amsterdam mi ha vista in prima linea ogni qualvolta si parlasse di droga leggera) – ci giriamo dalla parte opposta, soddisfatte dell’acquisto – sentiamo un trambusto, gesti rapidi, vediamo occhi sgranarsi – ci rigiriamo verso i banchetti, il tutto sarà durato una manciata di secondi – non c’erano più, spariti, nessun banchetto, mai esistiti – l’uomo che ci aveva appena venduto il fumo camminava lentamente nella direzione opposta alla nostra – non capiamo, ci guardiamo intorno attonite – la commessa di una bancarella di artigianato ci stava osservando e quando incrociamo gli sguardi,con le labbra serrate ci dice di togliere il fumo e con un cenno del capo ci indica cinque uomini che venivano verso di noi – poliziotti in borghese, scopriamo a posteriori.
La situazione di Christiania ancora non era chiara a livello politico (o forse non era affatto chiara a noi due, ventenni inesperte, alle prese con il nostro primo vero viaggio da sole) e dunque poteva capitare di ritrovarsi in mezzo ad una retata, proprio come noi in quel lontano agosto.
Avrei dunque già dovuto conoscere Copenhagen, ma non la conoscevo.
Prima di parcheggiare gratuitamente davanti al conservatorio musicale sapevamo che:
– nel centro di Copenhagen si trovano i Giardini di Tivoli, il parco divertimenti più antico d’Europa, che dal 1843 non si è mai fermato fino ad oggi, dove nel 1914 sono state costruite le prime montagne russe, in legno, e dove si trovano calci in culo alti ottanta metri.
– a Copenhagen si gira in bicicletta sempre e comunque: 4 abitanti su 10 hanno un’auto, 9 su 10 una bici.
– la Danimarca ha 444 isole.
– i Lego sono nati in Danimarca, a Billund, nel 1949.
– in tutta la Danimarca non ti puoi mai trovare a più di 52 km dal mare
– è stato il primo paese a legalizzare le unioni omosessuali nel 1989
– La Sirenetta è bersaglio di continui atti vandalici ed è stata decapitata due volte, povera.
– Hygge è una parola danese proprio carina, ed è quell’atmosfera di complicità, intimità e benessere che si respira tra amici e familiari (mi piacciono le parole che racchiudono un vissuto comune ma che sono intraducibili in altre lingue)
– Janteloven invece è la legge di Jante: dieci terribili articoli (più uno, l’ultimo, considerabile minatorio), che ruotano intorno ad una critica negativa della realizzazione e del successo individuale, espressi in maniera totalmente giudicante e intimidatoria.
Ad eccezione della formulazione dello Janteloven, che porta avanti però quel nobile desiderio di coesione sociale e di valore della comunità che a noi piace molto, queste informazioni hanno contribuito ad alzare notevolmente l’asticella del piacere di passare una giornata in questa città.
Copenhagen ci ha accolte avvolgendoci con un caldo insolito, di fronte al quale i danesi hanno risposto in massa denudandosi.
Migliaia di giovani in costume apparecchiano banchine e pontili che contornano i canali, in tanti direttamente a mollo nelle acque che dicono essere particolarmente pulite e che io però ho difficoltà a riconoscere come tali.
Restiamo affascinate ad osservare ragazzi e ragazze destreggiarsi in tuffi acrobatici da una struttura in legno alta una decina di metri che fronteggia l’edificio vetrato della Nykredit. Ancor di più ci attrae quel poetico contrasto tra la serietà degli uomini in giacca e cravatta che si intravedono dai vetri e l’adrenalinica spensieratezza di ragazzi a torso nudo, che sembrano volergli dire che loro sì, che sanno godere della vita.
Devo dire che il fascino è il nostro compagno di camminata durante tutti e quindici chilometri percorsi: le facciate colorate che si specchiano sul canale di Nyhavn, le forme sinuose della biblioteca reale, la ricercatezza stilistica del centro di architettura danese, una panchina alta almeno un metro e mezzo a Radhuspladsen, i colori del Kastellet, una fortezza a stella del 1600, dove svetta un antico mulino, fino all’arcobaleno che ha decorato il nostro arrivo alla statua della Sirenetta.
Una città sul podio della felicità.
Il costo della vita è per noi l’unica nota dolente: una birra a otto euro se la possono permettere solo i danesi, il cui stipendio medio si aggira intorno ai tremila euro mensili.
Un capitolo a parte se lo merita Christiania, i cui miei ricordi vertevano unicamente intorno al fumo e alla malavita.
Nel 1971 un gruppo di hippy ha occupato una vecchia base navale abbandonata, creando una comunità autogestita all’interno della capitale danese.
A questo punto confesso di essere andata, ora, a cercare informazioni più dettagliate a riguardo e ho appena scoperto che, dopo anni di continui scontri e retate, è stato nel 2007 che si è trovato l’accordo ufficiale. L’anno del mio Interrail. Ora mi spiego il blitz della polizia in borghese e quell’aria tesa che a distanza di quindici anni oggi non si respira più.
Comunque, l’accordo ha previsto l’acquisto dell’intero spazio (enorme!) alla modica cifra di dieci milioni di euro. Oggi, la Città Libera di Christiania è abitata da circa mille persone e possiede un rigido regolamento interno così introdotto: “Christianias commitment is to create and sustain a self-governing community, in which everyone is free to develope and express their selves, as responsible member of the community” Seguono poi una serie di “vietato”: l’uso delle armi, di droghe pesanti e della violenza, l’ingresso alle macchine, rubare, fare fotografie nella pusher street.
È dotata di un servizio postale, di un posto di primo soccorso, di scuole, asili, ludoteche e di un mega emporio dove abbiamo trascorso più di mezz’ora, non solo per ripararci dalla pioggia. Ha una bandiera propria: tre pallini gialli su sfondo rosso. Incuriosite dalla cosa, siamo andate al punto informazioni a chiederne il significato sotteso. La tipa non ha sprecato parole. In silenzio e con un’espressione di ovvietà stampata in faccia ci ha indicato i puntini delle tre i di CHRiSTiANiA, poi si è sbilanciata: “Qualcuno potrebbe dirvi che rappresentano i tre valori della nostra città: amore, pace e libertà, ma non è così, è molto più banale”.
Il tempo (sia a livello di clima che di chronos) non è venuto a nostro favore, quindi abbiamo dovuto salutare questo luogo utopico e seducente troppo presto.
Chiedo a Gloria, ora, per concludere, cosa desidera che aggiungo al racconto su Christiania: “che dovremmo conoscerla meglio, ci siamo state troppo poco”.
Ecco, perfettamente in linea con la mia, di conclusione.