VIAGGI A MANO LIBERA

Giorno 28/29 - 21/22 agosto

Parc Naturel Règional des Volcans d’Auvergne

[Giorno 28]

Ebbene sì. Tocca lasciare la Bretagna.
Sapevo che sarebbe arrivato il momento prima o poi, ma questo “poi” mi è sembrato passare troppo in fretta.
Avremmo dovuto fare il giro della penisola di Crozon e non l’abbiamo fatto, avremmo dovuto chiedere come arrivare a Ouessant e non ci siamo passate nemmeno vicine, saremmo dovute entrare a Mont Saint Michel passando per la lingua di sabbia e poi vederla da lontano galleggiare nel mare, e invece non ci siamo mosse dal nostro spot a 4 km da lì, ci saremmo dovute rimanere 5 giorni per andare a conoscere poi altre zone e altri parchi naturali nella Francia continentale, e ce ne stiamo andando oggi, al nostro dodicesimo giorno bretone. Io, con le lacrime agli occhi.
Ebbene sì. Tocca lasciare la Bretagna e iniziare una lunga discesa verso casa.
Mi sarei voluta avvinghiare ai tetti a spiovente d’ardesia nera, alle mucche bianche, alle scogliere, ai mini isolotti a poche decine di metri dalle coste, al mare che va e viene in maniera indecifrabile, alle nuvole ciccione e al cielo che qua è immenso davvero, agli ermellini, all’odore di burro, alle ostriche, al suo ancoraggio alle tradizioni, alle kouignette caramel beurre salé, e pure al freddo e alla nebbia della mattina. Mi sarei voluta aggrappare ai suoi fari e agli uccelli che li sorvolano e non andarmene più.
Invece no.
Diluvia.
Non possiamo nemmeno fare l’ultima escursione programmata per oggi, quella nella foresta di Brocéliande, tra le storie di Merlino e i cavalieri della tavola rotonda.
Scappiamo dal primo temporale ritrovato dopo Bordeaux, e arriviamo in Auvergne, passando per la Loira, senza vedere nemmeno un castello.
Solo mucche che cambiano colore e da bianche (o bianche e nere) diventano improvvisamente marrone chiaro.

[Giorno 29]
Nina ci guarda con aria minacciosa: non vorrete mica farmi passare altre 10 ore in macchina, schiacciata tra la chitarra, il gavone da 5 l d’acqua e la vostra musica di merda vero?
Lei non sa.
Lei non sa che cosa le aspetta oggi. In realtà non lo sappiamo nemmeno noi, tanto che il percorso di trekking scelto da me ieri sera non era assolutamente vicino a dove abbiamo deciso di dormire, a La Bourboule, ma ad un’oretta da lì, vicino piuttosto a Clermont-Ferrand.
Abbiamo trovato questa “randonné” su visorando, una sorta di Wikiloc francese: 14 km, 4 ore, alla scoperta del cuore del Parc Natural Régional des Volcans d’Auvergne. Avevo letto già prima di partire che era una zona con conformazioni geologiche particolari, e che la Chaîne des Puy fa parte del Patrimonio Unesco, ma dalle poche foto sbirciate superficialmente online non mi era sembrata niente di più della zona dei Castelli Romani in cui abitiamo noi.
Però questa passeggiata sembra piacevole, in più dopo le mila ore di viaggio di ieri le gambe ci implorano di farle andare.
E noi non glielo facciamo ripetere due volte.
Ora, la giornata è stata talmente piena di colpi di scena che forse l’unico modo che mi riesce di raccontarlo – se mai con le parole sarò all’altezza di farvi rivivere ciò che abbiamo vissuto noi – è fare una classifica. Una top5 dei momenti salienti di ieri.

AL 5º POSTO: I LAMPONI.
Avete mai camminato in un campo di lamponi? Non coltivati eh, selvatici dico.
Ma di più, no aspettate. Avete mai camminato in un campo di lamponi selvatici, pieno di lamponi selvatici, nel bel mezzo di un sentiero sufficientemente turistico?
Qua in Francia i camminatori non hanno la nostra stessa usanza di far le corse per prendere prima degli altri more, lamponi, fichi o quel che è, loro stanno a testa bassa e camminano. I frutti selvatici li lasciano agli animali selvatici. O a noi. Che ci scofaniamo di buonissimi lamponi.
E poi io non li avevo mai raccolti i lamponi e le prime volte hanno sempre quell’alone di meraviglia in più.

AL 4º POSTO: LO SPOT DI STANOTTE
Dopo la camminata, allungata e attardata dai punti 3 e 1 della seguente classifica, ci avviciniamo verso Grenoble, ultima tappa francese prima di scavallare le Alpi e tornare a chiamare “saccottino” il fagottino con dentro la cioccolata e con una quantità nettamente inferiore di burro nell’impasto.
Essendo stanche, decidiamo di fermarci un’oretta prima di arrivare in città, avvalendoci sempre dell’amico Park4night. Per salutare questa Francia che ci ha continuamente sorprese con la sua umidità data da mare stagni fiumi lagune ruscelli canali fiumiciattoli oceani e laghi, l’ultima notte in terra straniera, la dormiamo a bordo “étang”, da sole, con tanto di luna piena riflessa in acqua e il mormorio di tre pescatori che che con la loro torcia potente fanno luce alla leggera nebbiolina che ci avvolge.
AL 3º POSTO: LO ZAINO.
Appena arriviamo al parcheggio, ci togliamo subito le scarpe da trekking, le scambiamo con quelle più fresche e le riponiamo nel bauletto sul tetto.
Montiamo in macchina e iniziamo a fare i primi dei 300 km che ci aspettano fino a Grenoble. 300 km senza autostrade, come tutto il resto del viaggio, tra montagne e campagne, quindi nella totale impossibilità di trovare un gpl.
Grazie però ad una meticolosa ricerca di un benzinaio con tale servizio nei dintorni di Clermont-Ferrand (fatta tramite Google maps e street view, andando a scrutare nei pannelli dei prezzi se c’è la voce GPL), ne troviamo uno sulla strada, dove arriviamo dopo una quarantina di minuti. Scendiamo, ci guardiamo, “prendi i soldi”/ “dove sono?”/ “nel tuo zaino”/ cerco nel mio zaino e non ci sono i portafogli/ “nel mio non ci sono, stanno nel tuo?” /”può essere”/ “ma dove sta?” / “non è in macchina?”/ “non c’è Gloria” / “Ah. Mi sa che l’ho scordato nel parcheggio” / “come nel parcheggio?” / “sì, quando ho preso le birkenstock” / “e non l’hai messo in macchina?” / “non ne ho memoria”. Entrambi i portafogli erano nello zaino, e anche la mia macchinetta fotografica digitale da 300 euro, che poveretta uso sempre meno di quel che potrei e che ogni volta guardo con disprezzo perché preferisco mille volte la reflex.
Le strappo letteralmente le chiavi dalle mani e prendo io il comando alla guida, non avrei mai sopportato la sua ligia lentezza al volante, come non mi andava giù quel sorriso fintamente pacato e il suo ripetere con voce soave “tanto lo ritroviamo”, avrei solo voluto teletrasportarmi e non dover rifare altri quaranta minuti di macchina che poi sono diventati ventisette per capire se avremmo dovuto chiedere un trasferimento di denaro ai nostri genitori manco fossimo in America negli anni settanta, e chiuderci poi in una gendarmerie di Clermont-Ferrand a stentare il mio francese spiegando che la mia ragazza è una rincoglionita totale che non ha ficcato lo zaino in macchina prima di ripartire dalla fine del sentiero.
I 27 minuti si sono consumati in un silenzio tombale, fatto di mie imprecazioni e di sue preghiere taciute, perché io non avevo il coraggio di imprecare davvero prima del previsto per una cosa che obiettivamente avrei potuto fare anche io dal momento che tre giorni fa sono riuscita a lasciare gli occhiali sul tettuccio della macchina, andando avanti alla cieca senza manco rendermene conto, e lei hai voglia a dire tanto lo ritroviamo con quell’insopportabile vocina angelica di qualcuno che cerca di convincerti che non ha fatto niente di così grave, si stava cagando sotto e lo sapevamo entrambe.
Beh.
Io ho fatto bene a non imprecare e lei ha fatto bene a pregare.
Lo zaino era lì, sul muretto ad inizio sentiero, posto in bella vista da qualcuno che l’ha trovato altrove e che ha gentilmente pensato di metterlo sotto gli occhi del proprietario rincoglionito (della proprietaria, in questo caso). E nessuno l’ha aperto, nessuno ha rubato i due portafogli, né la macchinetta fotografica, né l’equiseto illegalmente sradicato per portarcelo a casa, né tantomeno (e vorrei ben vedere) la borraccia di plastica da 1 lt di Nina.
“Visto? C’era. Per fortuna stiamo in montagna, fossimo state al mare non l’avremmo mai ritrovato. In montagna la gente è più buona, c’è un codice morale che al mare non c’è” lo dice tutto d’un fiato, con lo stesso tono angelico di prima e col respiro che le è tornato ad essere regolare.

Poi, le do una testata sul naso.
(Purtroppo non è vero, non è andata così, non le ho parlato per la successiva mezz’ora, però sarebbe stata la risposta che più si meritava, e lo sappiamo tutti. Pure lei.)

AL 2º POSTO: PUY PARIOU.
Come ho già scritto, non avevo grandi aspettative, se non, finalmente, camminare.
E così è stato per un po’. Bellissima Puy de Goules, si vede proprio che era un piccolo cratere, ha i bordi ben segnati. Peccato la pioggia e il vento che ci schiaffano le guance in obliquo e che ci obbligano a riscendere di fretta. Tanto avevamo sbagliato strada.
Continuiamo comunque su un sentiero semplice e molto piacevole, nel sottobosco, con poca vista e lì dove c’è la vista, ripeto, molto bello ma niente di che. Ecco, mi sembra esagerato inserire questa roba nel patrimonio UNESCO.
Così pensavo, così pensavamo, fino a che non arriviamo a Puy Pariou.
Per salire sulla punta bisogna attraversare una ventina di famiglie che fanno il picnic della domenica in mezzo a prati e distese di fiorellini viola e poi bisogna salire 200 scalini almeno.
Una volta in cima, la prima cosa che vedi è il contorno ben definito del cratere, tondo, proprio tondo. La seconda cosa che vedi è una spirale. E non solo quella fatta da non so chi, al centro del cratere. Tutta. È tutta una spirale… Dal bordo del cratere, alla passarella per scendere, a quella con i sassi, alla sensazione di splendore e meraviglia che provo dentro.
Questo sì che lo designerei all’unesco. Questo sì che è qualcosa che non abbiamo mai visto.
Ne siamo estasiate.
Ci lasciamo cullare da quella spirale di armonia tra Natura e Uomo per un po’: decidiamo di fermarci in cima alle pareti a mangiare un panino insalata e sgombro alla senape (per il mio rientro in Italia ho comprato 9 scatolette di sgombro alla senape, non so come farò quando le avrò finite).

PRIMA CLASSIFICATA: Les Leves (che poi sarebbe Les Leviers).
Quella zona della Francia è zona di legna. Lo scopriamo dalla miriade di falegnamerie che troviamo strada facendo e dalle file di alberi piantati e poi tagliati durante il percorso. Ma soprattutto lo scopriamo sul sentiero, quando ci ritroviamo davanti una montagna di legna!
Talmente bello che decidiamo di farci un autoscatto. Come al solito dimentico di prendere il cavalletto comprato appositamente per il viaggio e al suo posto uso dei tronchi lunghi una quindicina di metri e con un diametro di 70 cm, posati a terra fronte montagna di legna, mentre Gloria si è già iniziata ad arrampicare sulla parete legnosa.
La scena che segue ha avuto due intonazione diverse di “merda” (questa io non la ricordo, ma me l’ha ripetuta Gloria per il resto della giornata mentre ancora rideva a crepapelle al pensiero della scena che proverò a descrivere).
1. MERDA! (tutto insieme, con l’accento marcato e rapido sulla E) quando mi è caduto il telefono.
2.(un secondo dopo) MEEHEERDAA… (più disteso e con voce più bassa, allungando sia la E che la A – ma la E di più) quando realizzo che il telefono è caduto nella fessura tra due tronchi (uno è il primo dei due che formava la base e l’altro è quello poggiato sopra, al centro, tra i due tronchi-base) e che la mia mano non entra nella fessura e che il tronco è lungo 15 metri e ha un diametro di 70 cm e non ho nemmeno la lontana idea di quanto possa arrivare a pesare.

La seconda intonazione di “merda” è un richiamo per Gloria che capisce essere successo qualcosa di decisamente più grave rispetto all’intonazione della prima “merda”.
Realizza anche lei il danno.
“Come cazzo famo?” è tutto ciò che la scimmia nel mio cervello riesce a ripetere, mentre la intimo di sbrigarsi a trovare una soluzione.
“Le leve, Marta, dobbiamo fare leva sul primo tronco”.
Dalla montagna di legna, tronfia d’orgoglio per questa sua archimedica illuminazione, torna con un cionco lungo e fino.
La cosa, per la successiva mezz’ora, è funzionata così:
Una usa come leva il tronco spessore1 per sollevare di qualche cm quello enorme, l’altra infila nella fessura un altro tronco di spessore2 per far sì che l’altezza della fessura si mantenesse pari a quella prodotta dalla leva spessore1.
A questo punto si prende un altro tronco spessore 2 da usare come leva. Si crea un buco spessore3 nel quale inserire l’apposito altro tronco di mantenimento.
Col tronco spessore4 iniziamo ad avere le prime difficoltà perché non riesce ad alzarlo una sola di noi due.
Ci guardiamo inermi.
“E mo che cazzo famo?” la scimmia.
Fino a che non arriva un ciclista con a seguito due amici.
“Abbiamo bisogno di una mano” la scimmia tira fuori il suo francese peggiore negli attimi di panico “volevamo farci una foto e mi è caduto il telefono tra i tronchi”.
“Ah merda” (che è proprio quello che avevo detto io una mezz’oretta fa)
E guardando con aria attonita la nostra opera d’arte scientifica ci chiede “e che avete fatto là?”
“On a fait un truc avec des leves” (solo a posteriori scopro che leva si dice levier, ma tanto lui mi capisce comunque)
Ci guarda, guarda gli amici, sono sbalorditi dalla nostra genialità, sorridono e si complimentano per l’idea.
Poi si abbassa verso il tronco base, mette una mano, alza lo sguardo, ci riguarda, sorride, toglie un po’ di erbetta, prende il telefono, me lo porge e dice “siete fortunate, sotto non appoggiava.” tempo di progettazione+tempo di esecuzione: 4 secondi e mezzo.
Noi erano 40 minuti che stavamo tribolando co sto gioco delle leve.
La scimmia, giustamente, mi manda a fanculo e se ne va.

(per vedere l’opera d’arte ingegneristica e le reazioni a caldo, potete cercare tra le storie in evidenza su instagram)

    Francesca Casadei
    24 August 2021

    Auvergne mon amour... Tra l'altro quanto sono meravigliosamente ospitali lassù?
    Ps sulla differenza di civiltà tra montanaro e marinaro medi però ha ragione Glorla ;-P

      amanolibera
      29 August 2021

      Infatti ha sempre ragione Gloria! ahahhahahaha

Lascia un commento o chiedi informazioni